Julián
Come sempre, Sandra arrivò al Faro in motorino, lo parcheggiò ed entrò in gelateria. La vidi dalla vetrina. Ci sedevamo sempre a un tavolo da cui si potevano osservare le macchine che arrivavano e la gente che entrava e usciva dal locale. Era un modo per non avere sorprese sgradite. Quando si sedette, sospirò e mise il casco da parte. Mi sembrò sciupata, forse troppo magra per essere incinta, ma fu un’impressione passeggera, più che un pensiero un’immagine. Il presente mi scivolava tra le mani troppo in fretta, non avevo il tempo di assaporarlo. Gli uccelli volavano via troppo velocemente, l’aria si disperdeva prima che potessi sentirla, le facce cambiavano in un attimo, gli odori sparivano, e quasi non mi importava: tutta la mia vita era passato. Avevo la sensazione di essere rimasto in questo mondo dopo la morte di Raquel per espiare qualche colpa, per soffrire un po’ di più: era totalmente assurdo che le fossi sopravvissuto. Sandra viveva nella dimensione del presente e io in quella del passato, anche se potevamo vederci e parlarci.
Quando le avrei confessato che avevo comprato il cane in modo deliberato e malsano e senza calcolare i rischi, quando le avrei detto che l’avevo usata per mettere alle strette i norvegesi, non mi avrebbe mai più guardato in faccia e avrebbe pensato, a buon diritto, che ero un miserabile come loro. Eppure dovevo dirglielo, non potevo morire con quel peso sulla coscienza, anche se da morto non avrei provato né pensato più nulla e niente mi avrebbe toccato perché mi sarei dissolto, sarei evaporato nel nulla. Forse non era una questione di coscienza, era solo il puro e semplice egoismo di voler essere come ero e non migliore di così. Fissarmi nella memoria di Sandra come l’orma di un piede nella sabbia, vivere un altro po’ per quello che ero e non come una figura inventata. Cosa credevo di poter ottenere sembrando migliore di ciò che ero, arrivato a quel punto della vita? Il rispetto di Sandra? E per cosa poi, per sentirmi fintamente bene?
Pensai di scriverle una lettera e di dargliela quando ci fossimo congedati al Faro, ma non dirglielo in faccia mi sembrò subito un atto di codardia, perciò la guardai negli occhi.
«Devo dirti una cosa. Non voglio il tuo perdono, non voglio niente, la vita è così, una porcata dietro l’altra. Non dovresti avere a che fare con uno come me.»
Sandra non vacillava. A volte teneva lo sguardo così fisso che dava fastidio: era come se dimenticasse di cambiare direzione.
«Si tratta del cagnolino, del cagnolino che hai regalato a Karin.»
«Povero Pallina», disse. «Anch’io ci ho pensato. Non avrei dovuto lasciarlo all’Anguilla, non avrei dovuto lavarmene le mani. Mi pesa moltissimo. Chissà cosa gli hanno fatto.»
«Ricordo la tua sorpresa di fronte alla reazione di Karin. Un cane tanto carino, una casa così grande. Incomprensibile che non lo volesse, non è vero?»
«Sono stata malissimo per quella storia, lo sai già. È stata una scortesia terribile e Karin non ha mai detto niente, non mi ha chiesto scusa e non mi ha dato nessuna spiegazione. Ho avuto la sensazione di aver fatto qualcosa di terribile senza sapere cosa, ma adesso mi preoccupa solo quello che possono aver fatto al cane.»
In un attimo avrei strappato a Sandra un po’ del suo buon cuore. A partire da quel momento ne avrebbe avuto un pezzo in meno. E meno cuori buoni ci fossero stati nel mondo, tanto peggio sarebbe stato per tutti.
«È stata colpa mia, solo colpa mia», dissi chiudendo gli occhi per non vederla. «Karin odia i cani di quella razza perché venivano usati nel campo di concentramento per terrorizzare i prigionieri. Non ti dirò di più. Li addestravano a quello scopo: le ricordano chi è stata e chi continua a essere. Le persone in fondo non cambiano, non migliorano, invecchiano e basta. Purtroppo è più facile peggiorare che migliorare. Io stesso mi sono appena reso conto di essere peggio di quanto credessi.»
Sandra era senza parole. Probabilmente non mi avrebbe mai creduto capace di una simile canagliata, né che avrei potuto metterla in pericolo o almeno in una situazione difficile. Lo sguardo non era più lo stesso, era diventato un po’ più triste, come se fosse molto stanca.
«Se io che ti stimo, che ti apprezzo e che ti considero meravigliosa sono stato capace di farti una cosa del genere, pensa dove potrebbero arrivare loro.»
Non sopportavo che stesse in silenzio. Quando Raquel si arrabbiava davvero con me, smetteva di parlare: la rabbia le cuciva le labbra. All’inizio mi disperavo e cercavo di fare in modo che tornasse nel mio mondo e mi guardasse, che mi accettasse di nuovo, ma questo non faceva che peggiorare le cose. Con il tempo avevo capito che era meglio aspettare e non forzare la situazione. Me ne andavo in un’altra stanza o a fare una passeggiata, mi allontanavo confidando che le forze della natura facessero il loro corso. Adesso pensavo di fare lo stesso, anche se Sandra non era Raquel, e anche se a Raquel non avevo mai fatto una carognata come quella che avevo fatto a lei.
Chiamai la cameriera, pagai e mi alzai. Sandra continuava a tenere lo sguardo basso. Lasciai due euro di mancia nel piattino e, nonostante questo, la cameriera mi guardò con un disprezzo infinito. Doveva esserle successo qualcosa con qualcuno della mia età quando aveva l’età di Sandra, qualcosa di peggio di quello che avevo fatto io a Sandra.